“L’Ecomuseo è una istituzione culturale che assicura in forma permanente, su un determinato territorio e con la partecipazione della popolazione, le funzioni di ricerca, conservazione, valorizzazione di un insieme di beni naturali e culturali, rappresentativi di un ambiente e dei modi di vita che lì si sono succeduti” (dalla Carta internazionale degli Ecomusei).
Tra le definizioni più note c’è senz’altro quella di G.H. Rivière:
“L’ecomuseo è il museo del tempo e dello spazio”
Un ecomuseo è uno specchio in cui questa popolazione si guarda, per riconoscersi, cercando la spiegazione del territorio al quale appartiene, assieme a quelle popolazioniche l’hanno preceduta, nella discontinuità o nella continuità delle generazioni. Uno specchio che questa popolazione offre ai propri ospiti, per farsi meglio comprendere, nel rispetto del suo lavoro, dei suoi comportamenti, della sua intimità.
Il futuro del passato
Intervista a Hugues De Varine di Giulio Caresio
Ieri padre e ideatore degli ecomusei, oggi “levatrice” dello sviluppo locale, Hugues De Varine è una personalità che abbiamo avuto l’occasione di intervistare a marzo a Torino, dove ha voluto rendere omaggio al lavoro degli ecomusei italiani. Assente per motivi familiari all’Incontro Nazionale degli Ecomusei tenutosi a Biella nell’ottobre scorso, è stato infatti osservatore e invitato d’onore alla presentazione del Documento che racchiude il senso ed il risultato di quell’occasione di incontro e dibattito (il testo integrale all’indirizzo www.ecomusei.net).
Lei con George Henry Rivière, ha teorizzato e lavorato al primo ecomuseo negli anni ’70, potrebbe definire l’anima ed il senso di un ecomuseo per chi oggi sente questo termine per la prima volta?
Un ecomuseo è qualcosa che rappresenta ciò che un territorio è, e ciò che sono i suoi abitanti, a partire dalla cultura viva delle persone, dal loro ambiente, da ciò che hanno ereditato dal passato, da quello che amano e che desiderano mostrare ai loro ospiti e trasmettere ai loro figli. Un tal processo si costruisce gradatamente, con alti e bassi. L’ecomuseo non è un museo, è “ovunque” e può morire se la gente non ne ha più bisogno.
Come vede gli ecomusei in Europa oggi?
La domanda non è semplice perché il panorama degli ecomusei in Europa è molto eterogeneo. In Francia, dove gli ecomusei sono nati, ne restano pochi che siano davvero strutture viventi a sostegno di un processo comunitario; la maggior parte sono piccoli musei locali, in senso classico. Nel Nord Europa, la tradizione dei musei “plein-air” strettamente legata alle piccole comunità locali si è mescolata all’influenza degli ecomusei francesi è ciò ha dato vita, soprattutto negli anni ’80, ad un numero considerevole di ecomusei in Svezia ed in Norvegia, ed in parte anche in Danimarca e Finlandia. Inghilterra, Irlanda, Olanda e Germania hanno sviluppato altri fenomeni di comunità legati al patrimonio, ma non hanno mai adottato la formula dell’ecomuseo. Nell’Europa dell’Est pare che stiano nascendo ora un buon numero di ecomusei, ma non ho gli elementi per fornirne i dettagli. E’ nell’Europa del Sud, in Italia, Spagna e Portogallo, che il fenomeno ecomusei è più vivo. In Italia, i risultati del vostro Incontro nazionale di Biella non hanno bisogno di ulteriori commenti. In Portogallo da vent’anni ormai si sviluppano i “musei di comunità”, una realtà che ha dato vita a ricerche, riflessioni e progetti molto interessanti. Un gruppo portoghese di “nouvelle muséologie” si è inoltre specializzato nello studio della “funzione sociale del museo”. In Spagna vi è molto fermento: in Catalogna si avvertono segnali di forte vitalità delle comunità, in Aragona troviamo il fenomeno dei “parchi culturali” analogo agli ecomusei come finalità e percorso, e poi l’Associazione dei Musei della Galizia che l’anno scorso ha promosso una riflessione molto interessante l’anno sulle relazioni tra musei e sviluppo e tra musei e comunità.
E l’Europa che posizione riveste nella situazione mondiale?
L’Europa riveste sicuramente una posizione di rilievo, tuttavia il territorio più importante per lo sviluppo degli ecomusei da più di 20 anni è l’America, ed in particolare il Canada Francese, ma soprattutto l’America Latina. In Messico lo sviluppo dei “musei comunitari” costituisce un esempio eccezionale. In Brasile, e anche in Guatemala, vi sono esperienze straordinarie di dinamiche ecomuseali e comunitarie in situazioni di estrema povertà. Per il resto paiono interessanti i nuovi ecomusei del Giappone; la realtà indiana, che ha dato vita su internet ad un forum di ecomuseologia su cui già una ventina tra museologi e ricercatori si scambiano opinioni e lavorano a nuovi progetti sul territorio. E’ da segnalare, infine, il fenomeno analogo agli ecomusei che si sta sviluppando nei territori aborigeni dell’Australia.
Come considera la realtà italiana?
Sono sinceramente rimasto molto impressionato dalla vitalità degli ecomusei italiani e soprattutto piemontesi, e dalla ricchezza ed il valore dell’esperienza di gestori ed attori di tali ecomusei. La vostra rete è un modello esemplare, conosco poche realtà simili: gli ecomusei della Norvegia negli anni ’80, i musei comunitari del Messico, ed i parchi culturali dell’Aragona.
Quali tappe e strumenti per creare un ecomuseo?
La creazione di un ecomuseo è un processo vivo che ha un inizio, ma che non ha necessariamente una fine. E’ essenzialmente un percorso collettivo, che si costruisce identificando gli elementi che ne faranno parte, valorizzandoli, collegandoli tra loro, magari trasformandoli. Non si possono definire delle tappe precise, ma gli strumenti sono molti: la parola, lo sguardo, il dibattito, l’escursione, l’esposizione, l’incontro tra abitanti e specialisti, l’invito alla visita di persone esterne, la partecipazione alle decisioni di pianificazione (cosa distruggere o costruire, come riutilizzare, etc…).
Gli ecomusei come possono coinvolgere i giovani?
E’ molto difficile, per quanto mi insegna la mia esperienza, interessare i giovani a tal punto da renderli partecipi alla creazione ed allo sviluppo di un ecomuseo. Salvo poche eccezioni, i giovani hanno altri interessi, che non sono legati al patrimonio, né al loro territorio o alla loro comunità. E’ opportuno tuttavia preoccuparsi della trasmissione ai giovani, non tanto dell’ecomuseo, quanto del patrimonio e delle radici che esso rappresenta. Le possibilità per farlo sono molteplici: naturalmente attraverso la scuola e le attività extrascolastiche, poi tramite attività di formazione ai mestieri tradizionali e ambientali, campi ed atelier di restauro, formazione di personale e guide, ed anche attraverso eventi e feste cui i giovani possano prendere parte non solo come spettatori, ma anche e soprattutto come attori e creatori.
Gli ecomusei allora possono offrire delle prospettive di formazione e di lavoro?
Credo di sì. Lo sviluppo di un ecomuseo è un processo che influenza fortemente gli abitanti di un territorio, coinvolgendoli e responsabilizzandoli. La partecipazione a tale dinamica ha un forte valore pedagogico e formativo. Inoltre un ecomuseo produce attività ed opportunità di lavoro direttamente (restauro, pianificazione, gestione, animazione, mediazione, accompagnamento dei visitatori) e indirettamente (attività commerciali locali, prodotti tipici e derivati, rinascita dei mestieri e delle produzioni tradizionali).